LA RICOMPOSIZIONE FONDIARIA IN ITALIA

Pasquale Salvatore
past Consigliere Nazionale CNGeGL

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Introduzione

Il tema della ricomposizione fondiaria in Italia può essere affrontato principalmente sotto tre profili: quello storico-giuridico, quello agronomico-forestale e quello economico; le tematiche sono abbastanza articolate e in alcuni casi si intersecano e si condizionano a vicenda, incidendo sulla fisionomia delle aziende agricole quali principali componenti della filiera agro-alimentare. In questo articolo affronteremo alcuni aspetti relativi al primo profilo.

La riforma agraria e l’impatto sulle zone rurali

In termini generali, la ricomposizione fondiaria è una pratica che consiste nella riorganizzazione di un fondo agricolo o di un’area boschiva, al fine di ottimizzarne la gestione ed ottenere il “giusto” rendiconto economico. Si tratta di un’operazione complessa, che può comportare anche il riassetto dei confini; in tal caso, in aggiunta alle questioni giuridiche, è fondamentale l’utilizzo di tecnologie avanzate come la cartografia digitale, le fotogrammetrie e le tecniche di rilevamento 3D per la conoscenza del territorio interessato.

In Italia, la ricomposizione fondiaria ha una lunga storia e viene regolamentata da una normativa specifica: promossa dallo Stato a partire dagli anni ’50, aveva l’obiettivo di riorganizzare e modernizzare il territorio rurale del Paese. Nota come “riforma agraria”, prevedeva la ridistribuzione delle terre in modo da costituire appezzamenti più grandi e omogenei, favorire l’accesso ai finanziamenti e alle tecnologie più avanzate, migliorare la produttività agricola di vasti territori. Venne operata in otto specifici comprensori di bonifica: Delta Padano, Maremma Tosco Laziale, Fucino in Abruzzo, Appulo Lucani (comprendenti le regioni della Puglia, Lucania e Molise), Campania (Piana del Sele e Piana del Volturno‐Garigliano), Calabria (territori silano‐jonici e zona di Caulonia), Sicilia, Sardegna.

L’attuazione era prevista per mezzo di programmi finalizzati non soltanto a redistribuire la terra, ma anche a trasformarla, mediante lo svolgimento di compiti diversi: studio dell’ambiente e dei terreni da espropriare; definizione, pubblicazione ed esecuzione dei piani di esproprio; individuazione dei “poderi” e delle “quote”, tenendo conto delle condizioni agronomiche dei terreni, per procedere alla programmazione e alla progettazione di trasformazione fondiaria e agraria. In particolare: i “poderi” corrispondevano ad aziende autosufficienti, in quanto le loro dimensioni (anche fino a 15 ettari) erano tali da poter assicurare un reddito adeguato per la famiglia contadina, mentre le “quote” (solitamente dai 2 ai 4 ettari) erano appezzamenti di terreno destinati solo ad integrare il reddito di contadini, eventualmente già possessori di altre superfici.

In sostanza, la Riforma – sebbene esclusivamente “fondiaria” – da un lato attuò una vera e propria opera di colonizzazione e trasformazione di interi territori con un forte impatto sulle zone rurali, dall’altro favorì la nascita di cooperative agricole e nuove forme di organizzazione del lavoro, contribuendo alla modernizzazione dell’economia italiana.

Tuttavia, la riforma non è stata priva di critiche e controversie, soprattutto riguardo all’esproprio di terreni privati ​​e alla distribuzione dei nuovi appezzamenti che, secondo alcuni, avrebbe condotto  alla desertificazione di alcune zone rurali, con conseguente abbandono delle terre e perdita di biodiversità. Il processo, inoltre, ha registrato la scarsa attenzione alla tutela dell’ambiente e la mancanza di un’adeguata pianificazione territoriale, che hanno portato all’eccessiva urbanizzazione di alcune zone e alla perdita di aree naturali di grande valore.

Dimensione e redditività delle imprese agricole: polverizzazione e frammentazione

Negli ultimi tempi, il monito lanciato agli inizi del secolo scorso dagli economisti agrari sugli effetti devastanti in termini di redditività delle imprese agricole (prodotti dalle diverse patologie che inficiano le relative strutture fondiarie), riecheggia minaccioso nelle orecchie di chi legge i dati Istat degli ultimi anni, rivelatori di una costante riduzione della superficie agricola aziendale, che permane una delle più basse d’Europa.

Ancora attuale si prospetta, quindi, la necessità di intervenire per eliminare (o almeno attenuare) gli effetti perversi di fenomeni di segno remoto – ma tuttora estremamente vitali – dalla cui azione sinergica deriva la tendenziale inadeguatezza dimensionale della base fondiaria delle nostre imprese agricole: un aspetto, questo, segnalato come uno dei maggiori vincoli alla produttività delle stesse. Il riferimento, in particolare, è alla cosiddetta polverizzazione, ossia all’esistenza di superfici troppo ridotte e non idonee allo sviluppo di strutture produttive competitive, nonché alla cosiddetta frammentazione, termine che indica quel fenomeno in base al quale singole unità produttive sono formate da appezzamenti di terreno appartenenti allo stesso proprietario, ma separati l’uno dall’altro da appezzamenti appartenenti ad altri.

La genesi dei suddetti fenomeni è legata ad una pluralità di potenziali cause, tra le quali la peculiare morfologia del nostro territorio, tuttavia è possibile affermare che, in realtà, esse sono tendenzialmente identificabili in quell’eccessivo frazionamento dei fondi che spesso rappresenta il risultato dell’applicazione della vigente normativa che regola la circolazione dei terreni agricoli, sia con riferimento agli atti tra vivi sia – in misura maggiore e più incisiva – in relazione alla successione a causa di morte, dove la pedissequa applicazione del regime ereditario dettato dal codice civile può dar luogo alla citata suddivisione del fondo rustico.

Il regime ereditario

La peculiarità che connota il regime ereditario comune, ispirato ai principi del rispetto dei vincoli familiari del de cuius (che si traduce nella riserva ex lege di una quota parte di eredità ai legittimari come limite alla libertà testamentaria, all’uguaglianza di trattamento degli eredi di pari grado e, infine, alla divisione in natura del patrimonio relitto), è un vincolo che si somma alle ulteriori esigenze che contraddistinguono le successioni agrarie legate alla necessità di garantire l’integrità dell’azienda agricola oltre che del fondo rustico, la continuità dell’esercizio dell’impresa ad opera di soggetti professionalmente qualificati, un adeguato riconoscimento all’attività di collaborazione eventualmente prestata dagli eredi (o da una parte di essi) nell’ambito dell’impresa del de cuius. In quest’ottica, i due fenomeni della ricomposizione fondiaria e della conservazione dell’integrità fondiaria si rivelano quasi come due facce della stessa medaglia: appare, infatti, paradossale adottare strumenti mirati alla formazione di strutture produttive idonee sotto il profilo dimensionale fondiario, quando le stesse sono inevitabilmente destinate ad essere frammentate a seguito dell’applicazione della normativa ereditaria di origine codicistica.

La risposta che il legislatore ha offerto a queste istanze non è da ritenere soddisfacente. Da un lato, infatti, si registrano frammenti di soluzione al più generale problema del diritto agrario ereditario, quali l’affitto coattivo di cui all’art. 49 della legge 203/82, o l’acquisto coattivo, di cui alla legge n. 97 del 1994 sulla montagna, esteso successivamente a tutto il territorio dello Stato dal decreto legislativo n. 228 del 2001; tali provvedimenti, pur garantendo la conservazione dell’integrità fondiaria, prescindono da qualsivoglia indicazione di dimensioni minime fondiarie da preservare. D’altro canto, non poche criticità rivela anche l’istituto del compendio unico, previsto dall’art. 5 bis del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, introdotto dall’art. 7 del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99, come integrato dall’art. 3 del decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 101, ideato dal legislatore come strumento in grado di realizzare la finalità di ricomposizione fondiaria e, al contempo, arginare – con adeguati strumenti operativi sul piano degli atti tra vivi e delle successioni ereditarie – eventuali potenziali frazionamenti dei fondi attuati attraverso la ricomposizione medesima. Il tutto come conseguenza della disciplina codicistica della minima unità colturale, di illuminata formulazione ma destinata a non avere attuazione a causa della circostanza che la determinazione, in concreto, della minima unità colturale era demandata ad una autorità amministrativa rimasta non identificata, con conseguente paralisi di tutto l’apparato di controllo delle dimensioni dei fondi ad esso collegato: uno dei tanti casi in cui la mancata definizione regolamentare degli aspetti applicativi non consente l’attuazione delle finalità della legge stessa.

Il compendio unico in agricoltura

L’attuale quadro normativo italiano comprende  due tipologie di compendio unico in agricoltura: quello ubicato in territorio di Comunità Montana (o compendio montano), cronologicamente anteriore, la cui disciplina trova accoglimento nell’art. 5 bis della legge n. 97 del 31 gennaio 1994 “Nuove disposizioni per le zone montane”, introdotto dall’art. 52, comma 21, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (Legge finanziaria 2002); il compendio in altri territori (o compendio generale), la cui disciplina è inserita nell’art. 5 bis del decreto legislativo n. 228 del 2001,  che trova invece applicazione su tutto il territorio nazionale, prospettando qualche significativa differenza rispetto al suo prototipo: anche sotto il profilo del contenuto delle sue disposizioni (soprattutto per quanto attiene ai profili ereditari dell’istituto), risulta ispirata a finalità che trascendono i confini della protezione delle aree montane.

Un altro aspetto, di non poco conto, sulla circolazione dei compendi è rappresentato dal gravoso intralcio correlato al vincolo di indivisibilità decennale che interessa il complesso immobiliare costituente il compendio unico; in proposito, non si può non evidenziare la nullità dell’atto inter vivos o mortis causa (delle disposizioni testamentarie), che prevede il frazionamento prima del decennio, in aggiunta a quelle contemplate dal Codice civile. Inoltre, non poche perplessità emergono sull’attuazione pratica della previsione del comma 6 dell’art 5 bis del decreto 228/2001, sul criterio indicato per “soddisfare” gli eredi che non percepiscono materialmente la quota di spettanza: il richiedente (assegnatario) si deve accollare un debito di valuta garantito da ipoteca, iscritta a tassa fissa sui terreni caduti in successione, da pagare entro due anni dall’apertura della successione, con un tasso di interesse inferiore di un punto a quello legale. In proposito, si evidenzia che nulla dice la legge in merito alla possibilità di fruire, per tacitare i diritti dei coeredi, delle agevolazioni sull’accesso ai mutui, previsti invece per la costituzione del compendio.

Il patto di famiglia

Un altro istituto finalizzato a prevenire la frammentazione fondiaria è il patto di famiglia, previsto dalla legge n. 55 del 14 febbraio 2006, che ha introdotto nel Codice civile l’art. 768 bis. Tale norma definisce il patto di famiglia come un contratto con il quale – compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare, e nel rispetto delle differenti tipologie societarie – l’imprenditore trasferisce  (in tutto o in parte) la sua azienda gestita in forma individuale, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce (in tutto o in parte) le proprie quote ad uno o più discendenti. Il coniuge, e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore, sono chiamati, ex art. 768 quater, 1° comma, a prendere parte al patto che – ai sensi dell’art. 768 ter – deve essere concluso a pena di nullità per atto pubblico. L’assegnatario, o gli assegnatari, dell’azienda o delle quote societarie, sono obbligati ex art. 768 quater, 2° comma, a liquidare i legittimari che hanno partecipato al patto, salvo che questi ultimi non vi rinuncino (in tutto o in parte) con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote di riserva a loro favore, previste dalle norme dettate in materia dal Codice, agli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione avvenga, in tutto o in parte, in natura.

I beni assegnati ai legittimari in forza della liquidazione pattizia sono imputati – secondo il valore ad essi attribuito nel patto – alle quote di legittima loro spettanti (ex art. 768 quater, 3° comma). Ai sensi del 4° comma dell’art. 768 quater, quanto ricevuto dai contraenti in forza del patto – e dunque, sia l’azienda e le partecipazioni societarie, sia i beni assegnati ai legittimari a titolo di liquidazione – non è soggetto a collazione o riduzione.

L’esenzione ex lege dalla collazione e dall’azione di riduzione configura una deroga significativa al regime ereditario di matrice codicistica, che trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di garantire all’assetto di interessi costruito attraverso il patto di famiglia un particolare effetto di stabilità, che rappresenta l’essenza della portata innovativa dell’istituto. In questo contesto, non si può non evidenziare che la suindicata norma sembra potenzialmente idonea a garantire l’integrità aziendale, e non quella fondiaria: infatti, l’articolo 768 bis individua chiaramente l’azienda quale oggetto del patto. Qualche perplessità, invece, è rappresentata dalla mancanza di indicazioni normative circa eventuali agevolazioni di natura finanziaria/fiscale, che permettano all’assegnatario (o assegnatari) di affrontare meglio la tacitazione dei diritti spettanti agli altri legittimari parti del contratto, privilegiando – a favore dell’integrità fondiaria – la liquidazione con una somma pari al valore della quota, e non corrispondere il dovuto in natura. Non poche, in proposito, sono le tematiche di natura estimativa che vanno risolte con il supporto di professionisti esperti nel settore.

Conclusioni

In definitiva, si può affermare che il tema della ricomposizione fondiaria è direttamente collegato con quello della frammentazione, soprattutto nell’ambito del regime dei trasferimenti mortis causa vigente in Italia. Del resto, non è facile riuscire ad armonizzare le norme esistenti in materia di successioni – applicate anche nel settore dell’agricoltura – con le esigenze di una continuità nella gestione aziendale, direttamente collegata – fra l’altro – all’ estensione degli appezzamenti a destinazione produttiva. Si tratta, infatti, di intervenire su un impianto di regole che attiene sia gli aspetti civilistici, sia quelli gestionali. I provvedimenti emanati fino ad ora, pur introducendo procedure innovative, evidenziano due principali criticità: l’assenza di regolamenti attuativi per quanto riguarda la norma sul compendio unico (indicazione dell’autorità amministrativa a cui demandare l’esplicitazione degli aspetti operativi e la definizione dei termini), e la mancata individuazione di adeguati strumenti di finanziamento a sostegno delle iniziative per liquidare le quote degli altri coeredi: difficoltà individuate dalla Commissione Europea (nella Raccomandazione n. 94/1069/CE del 7 dicembre 1994) come veri e propri ostacoli all’attuazione dei meccanismi proposti dal legislatore.

In altre parole: tutti elementi che rappresentano delle indubbie criticità di natura operativa, che contribuiscono a rendere ancora più incerto il cammino per la soluzione dei problemi legati al settore fondiario.

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